Farmaci

Da tempo immemorabile, fin dagli albori della Storia documentata, l’umanità ha cercato, per mezzo di sostanze assunte in vario modo, mutare il proprio stato di coscienza e la propria percezione della realtà. Ciò è avvenuto perseguendo vari scopi: ridurre il senso di fatica, o il dolore, sia fisico, sia psichico, accentuare le sensazioni di piacere, allargare i propri orizzonti mentali, supplire ad un’ispirazione artistica che non c’è, provare esperienze di tipo mistico da rivelare e manifestare ad altri per acquisire potere, semplicemente annullare la noia ed il vuoto esistenziale di una vita priva di senso.Se ripercorriamo le epoche storiche, secondo una classica, ma artificiosa distinzione appresa a scuola, possiamo renderci conto, che a differenti periodi storici e quindi a differenti culture, come a differenti aree geografiche, corrispondono predilezioni e propensioni diverse, nei confronti di queste sostanze, dotate di tali particolari proprietà, sostanze cui spetta la denominazione di “sostanze psicoattive” Esula dai limiti e dai propositi di quest’articolo un’analisi dettagliata di tali sostanze che mi limiterò solo a citare e che mi propongo di trattare successivamente, in una voce specifica:Alcool, oppio, marijuana, funghi psichedelici, piante psichedeliche, muffe psichedeliche, khat, tabacco, ossido nitroso, cocaina, eroina, metadone, amfetamine, lsd ed altri psichedelici di sintesi, sostanze inalanti, sedativo-ipnotici (barbiturici).

Ho volutamente citato per ultimi, in questa lista di sostanze psicoattive, volgarmente dette droghe, i Barbiturici, la cui sintesi risale ai primi anni del 1900, in quanto essi proprio, rappresentano l’anello di congiunzione, ma anche di distinzione, fra sostanze psicoattive e psicofarmaci propriamente detti. Per sostanze psicoattive s’intende “sostanze che manifestano un’attività a livello delle funzioni superiori del sistema nervoso centrale, inducendo modificazioni sia psicologiche, sia comportamentali, nell’individuo che le assume”, modificazioni da leggersi comunque, come un’alterazione del normale assetto e funzionamento del sistema nervoso. Gli psicofarmaci propriamente detti, argomento del nostro articolo, invece, pur agendo sempre a livello del sistema nervoso, modificazioni in tal senso non ne producono, ma invece ripristinano, in quanto appunto farmaci con finalità terapeutiche, il normale funzionamento del sistema nervoso stesso, quando esso sia stato alterato dalla malattia, o dall’uso di tali droghe, il che, di questi tempi, avviene sempre più frequentemente.In altre parole e rischiando d’essere monotono, lo ripeto, la distinzione fondamentale tra sostanze psicoattive (droghe) e psicofarmaci, sempre da tenere presente, è rappresentata proprio dal concetto di finalità terapeutica.

Mentre le sostanze psicoattive, agendo a livello del sistema nervoso centrale, provocano in esso delle modificazioni, di varia natura, più o meno serie, ma comunque nel senso e nella direzione di un allontanamento dalla normalità, di un’alterazione del normale e sano funzionamento di questo, gli psicofarmaci invece, agendo sempre sul medesimo sistema nervoso, a scopo terapeutico, vengono utilizzati proprio in senso inverso, per ripristinare il normale funzionamento di questo, quando esso abbia subito delle alterazioni provocate da malattie, o dall’uso, a scopo voluttuario, proprio di queste droghe citate in precedenza.

Perché allora i barbiturici, rappresentano, come accennavo prima, l’anello di congiunzione, ma anche la separazione tra sostanze psicoattive e psicofarmaci?

I barbiturici furono sintetizzati agli inizi del 1900 dal chimico tedesco Bayer, (proprio quello che legò il suo nome all’Aspirina), il quale si rese immediatamente conto dell’importanza della propria scoperta. Ci si trovava, per la prima volta di fronte a sostanze dotate di una specifica attività sedativa sul sistema nervoso centrale, capaci quindi di provocare, nel soggetto che li assumesse, una sedazione, variabile come intensità, da una modesta sonnolenza, fino al coma, in rapporto al particolare composto, alla dose, alla via di somministrazione, al grado d’eccitabilità del sistema nervoso in quel momento.

La Medicina iniziò ad utilizzarli immediatamente ed ampiamente come ipnotici, ossia induttori del sonno, nei vari tipi d’insonnie che possono assillare e tormentare i pazienti.

In quel periodo e proprio per mezzo dei barbiturici, si sviluppò, ad opera di psichiatri svizzeri, la cosiddetta “cura del sonno” consistente nel sottoporre i pazienti, in genere schizofrenici, o tossicomani, a periodi di sonno continuo per 12-14 giorni, interrotti da brevissimi risvegli, per consentire l’alimentazione e le funzioni fisiologiche. Si sperava così di ottenere un “distacco” del paziente, dalle situazioni che avessero causato l’assunzione di droghe, nel caso di tossicomanie, o dalla patologia psicotica, nel caso della schizofrenia. Purtroppo, in ambedue i casi, le terapie del sonno fallirono e furono ben presto abbandonate, ma sono rimaste nell’immaginario collettivo.L’uso dei barbiturici come ipnotici è stato quasi completamente abbandonato, e sostituito attualmente dalle benzodiazepine.

Ci si rese, infatti, ben presto conto, che nei pazienti trattati, s’instaurava facilmente un’assuefazione al farmaco e in conseguenza di questa, essi erano costretti ad assumerne dosi sempre crescenti, per ottenere lo stesso effetto.Parallela all’assuefazione s’instaurava sempre anche una “dipendenza”, in ragione della quale, creatasi questa, il paziente era costretto ad assumere sempre la sostanza, per evitare la “crisi d’astinenza”, che in assenza di tale sostanza, si sarebbe inevitabilmente verificata.La sindrome d’astinenza, nei soggetti dipendenti da barbiturici, è caratterizzata da una grave forma d’ansia, tremori, contrazioni muscolari, vertigini, nausea, vomito e perdita di peso. Nei casi più gravi si possono verificare anche crisi convulsive.

Attualmente i barbiturici vengono utilizzati, a scopo terapeutico, da soli, o in associazione con altri farmaci antiepilettici, nella terapia appunto dell’epilessia.Un impiego specifico e molto importante lo trovano anche nel trattamento d’urgenza degli stati d’intossicazione acuta da cocaina.Fin qui gli impieghi terapeutici dei barbiturici, ma purtroppo, fin dall’inizio, per questo parlavo di essi come ideale anello di congiunzione tra psicofarmaci e sostanze psicoattive, sono stati utilizzati per scopi tutt’altro che terapeutici, ossia come droghe.Anche a piccolo dosaggio, essi provocano, in chi li assume senza controllo medico, un effetto molto simile a quello conseguente all’assunzione d’alcool: piacevole senso di leggerezza, d’euforia, disinibizione, soprattutto nell’ambito della sfera sessuale, maggior facilità di rapporti interpersonali, senso di potenza e ipervalutazione delle proprie capacità. Naturalmente tali effetti sono dose-dipendenti, nel senso che a dosaggi maggiori corrispondono effetti sempre più intensi fino ad arrivare, per l’alcool, come per i barbiturici ad uno stato d’ubriachezza che può culminare con il coma, o addirittura la morte.Una curiosità storica: la nascita dei barbiturici risale approssimativamente agli anni in cui muoveva i primi passi la novella Psicoanalisi.

In un primo tempo si utilizzarono quelli, per aiutare i metodi d’indagine di questa, sfruttando proprio le proprietà disinibenti dei barbiturici nella cosiddetta “narcoanalisi”, una psicoanalisi condotta nel paziente, sotto l’effetto disinibente dei barbiturici.Per tornare al nostro discorso originario, ossia gli psicofarmaci, nel senso di sostanze che agiscono a livello del sistema nervoso centrale, ripristinandone le normali funzioni, e quindi utilizzati a scopo, con finalità e modalità terapeutiche, devo immediatamente dire, e la ragione di tale articolo è prevalentemente, se non sostanzialmente questa, che il loro uso è gravato, reso difficile, spesso addirittura impedito, dalla miriade di pregiudizi, e di preconcetti che su di essi esistono, frutto, mi spiace dirlo, d’ignoranza, nel senso di non conoscenza, ma a volte, forse spesso, anche di un’informazione distorta, falsificata, condizionata, ad arte ed in malafede, per scopi che nulla hanno a che fare con la tutela della salute dei pazienti.Non voglio certo con questo fare una sorta di pubblicità gratuita alle case farmaceutiche, d’altra parte produttrici, non solo degli psicofarmaci, ma anche degli antibiotici, degli antiipertensivi, dei farmaci che prevengono l’infarto, degli antidolorifici ecc….

Nella mia pratica professionale, spesso le maggiori difficoltà, le incontro, non tanto nel fare una diagnosi, o nel decidere entro di me una terapia da proporre al paziente, quanto piuttosto nel convincere quest’ultimo ad assumere una terapia farmacologica, nel vincere le sue resistenze e gli infondati timori, nel superare le perplessità dei familiari, spesso i “peggiori nemici” della guarigione, naturalmente in buona fede.Veniamo allora ai famigerati psicofarmaci.La loro nascita, che ha radicalmente mutato il volto della Psichiatria e le ha fatto fare un balzo in avanti inimmaginabile, ponendola sullo stesso livello delle altre branche della Medicina, ha una precisa data ed un preciso luogo: Parigi 1952.

Gli studi di Delay e Deniker sugli antistaminici (farmaci che si usano nella terapia delle allergie), portarono all’osservazione dello spiccato effetto sedativo, ma soprattutto antidelirante ed antiallucinatorio di una sostanza antistaminica, la Cloropromazina ed alla constatazione della sua straordinaria efficacia nella terapia della schizofrenia, che fino ad allora si era basata solo sull’elettroshock.Per la terapia della depressione, bisognerà attendere ancora qualche anno, fortunatamente pochi.

E’ del 1957 l’acuta ed importantissima constatazione, da parte di un tisiologo, che un farmaco nuovo, l’isoniazide utilizzato per la cura della tubercolosi, provocava nei pazienti tisici, cui era somministrato, uno straordinario miglioramento del tono dell’umore.

La somministrazione di questo farmaco, e soprattutto di un suo derivato, l’iproniazide ai pazienti depressi, iniziò l’era degli antidepressivi, fantastica per noi psichiatri, fino ad allora impotenti di fronte alle sofferenze di questi pazienti, e caratterizzata dalla possibilità di poterli finalmente curare con mezzi seri ed efficaci.Nei primi anni ’60 vennero scoperti gli effetti sedativi ed ansiolitici di una nuova sostanza il clordiazepossido, capostipite delle benzodiazepine, dette anche tranquillanti minori. Sulla scia di queste scoperte, molti altri farmaci vennero poi sintetizzati in laboratorio, ma la strada per la terapia della schizofrenia, della depressione e dell’ansia era stata tracciata.Ho citato, con la Cloropromazina, l’Iproniazide e il Clordiazepossido, i capostipiti delle tre categorie di psicofarmaci, “Antipsicotici”, “Antidepressivi” e “Ansiolitici”, che fondamentalmente sono a nostra disposizione nell’ambito terapeutico.Senza avventurarci in complessi discorsi farmacologici, che non interesserebbero e risulterebbero noiosi, vorrei spendere qualche parola per ognuna di queste.La Cloropromazina, tuttora largamente usata, con il nome commerciale di Largactil è il capostipite della categoria di farmaci detti neurolettici, o antipsicotici.

Si evince da questa parola, che essi sono specificatamente usati nella terapia delle psicosi, ossia fondamentalmente la schizofrenia e le fasi euforiche, o altrimenti dette maniacali, della psicosi maniaco-depressiva. (purtroppo non posso spiegare in questa sede di che malattie si tratti, ma esse saranno oggetto di un prossimo articolo).

Tengo a precisare, che quando parliamo di terapia della schizofrenia e della psicosi maniaco-depressiva, purtroppo non siamo ancora in grado di intendere “terapia” quale strumento per ottenere la guarigione completa e definitiva della malattia, come invece si può intendere per la terapia antibiotica della polmonite, del tifo, della tonsillite, tanto per citare alcune patologie che si risolvono con una totale e completa, nonché definitiva guarigione.La schizofrenia, infatti, nonostante i notevoli progressi compiuti dalla ricerca, rimane ancora per noi psichiatri, è doveroso ammetterlo, un mistero, per ciò che concerne le cause che la provocano e la reale natura della malattia.

Naturalmente, come spesso avviene, quando s’ignora la verità, la fantasia vola, alla ricerca di una certezza, rassicurante, ma probabilmente fallace, se non è suffragata da riscontri scientifici.

E naturalmente, è quanto si è verificato anche a proposito di questa grave malattia, il cui solo nome incute timore, e riguardo alla quale, si sono formulate le più varie teorie, pretendenti ovviamente ciascuna, d’essere depositaria della verità.

Non è certo questo il luogo opportuno per fare polemica, ma allo stato attuale, credo di poter affermare, che le maggiori illuminazioni ed indizi, atti a svelare il mistero della schizofrenia, ci siano provenute proprio da quegli psicofarmaci, che da tante parti sono così violentemente denigrati.

Mi appare, infatti, addirittura banale nella sua evidenza la constatazione, che ove uno psicofarmaco, ossia una molecola chimica, riesca a far recedere completamente, o parzialmente i sintomi della malattia, quali allucinazioni, deliri e tutte le altre, o solo alcune anomalie del pensiero, della volontà, dell’affettività, che caratterizzano la schizofrenia, ed essendo uno psicofarmaco una molecola chimica, che interagisce ed agisce su altre molecole chimiche, allora mi sembra addirittura banale, dicevo prima, dedurre, dall’efficacia totale o parziale dei suddetti farmaci, che tali alterazioni delle funzioni psichiche che denominiamo schizofrenia, siano prodotte da alterazioni biochimiche avvenute in sede del sistema nervoso centrale.

Quando avremo comprese queste, avremo compreso, se non la causa, almeno il meccanismo con cui la schizofrenia si manifesta.

Discorso analogo, ovviamente si può fare, per la psicosi maniaco-depressiva.

Tutto questo, ed è altrettanto ovvio, senza nulla togliere, al drammatico vissuto esistenziale del paziente schizofrenico, alla Sua essenza umana, alla Sua individualità, che merita ed alla qual è dovuto, tutto il mio rispetto, la mia attenzione, la mia partecipazione affettiva, il mio essergli vicino come psichiatra, come medico, ma soprattutto com’essere umano eguale a lui, con l’unica differenza di essere stato più fortunato di lui, di essere stato immeritatamente dotato di quella salute psichica, che invece a lui è stata negata.

Tutto ciò sul piano umano.Ma siccome il medico riunisce in sé le due figure, d’essere umano che deve provare affetto e compassione per il suo simile ammalato, ma anche d’uomo di scienza, che si propone, con i frutti della propria ragione, di aiutare l’altro, allora non mi posso limitare alla comprensione e compassione, ma devo anche investigare la malattia come problema logico da risolvere, come mistero da sciogliere, come oscurità nella quale devo portare luce.

In altre parole devo indagare, investigare, capire, scoprire il mistero della malattia, per aiutare il malato.

Mi si perdoni questa lunga divagazione, apparentemente fuori tema, ma siccome il discorso degli psicofarmaci è gravato da pregiudizi, preconcetti, preclusioni, frutto di non conoscenza, d’inesattezze, di paure immotivate, di mancanza di chiarezza, il tutto a completo discapito della salute dei malati, allora mi è sembrato opportuno, per dovere di lealtà, esprimere fino in fondo il mio pensiero, in proposito.

Ribadisco, il mio pensiero, sicuramente da altri non condiviso.Alla loro scoperta, come abbiamo visto casuale, ed alla comprensione almeno in parte, del loro meccanismo di azione a livello del sistema nervoso centrale, dobbiamo la comprensione del meccanismo biochimico sotteso e responsabile della sintomatologia depressiva, così come essa si manifesta, analogamente a quanto abbiamo detto a proposito della schizofrenia.

Con l’unica, sostanziale, non trascurabile differenza, che la depressione è completamente e definitivamente curabile e guaribile. Nel senso che la depressione, una volta curata radicalmente e completamente guarita, permette la sospensione totale dei farmaci che hanno portato alla sua guarigione, senza che essa si ripresenti.

Gli psicofarmaci antidepressivi rappresentano, a mio parere, una delle più grandi conquiste della psichiatria, che hanno mutato radicalmente la sorte ed il destino dei pazienti depressi, abbandonati e legati prima, solamente alla speranza di una spontanea guarigione.

Spesso, per quanto riguarda soprattutto la depressione, la terapia farmacologica viene contrapposta e considerata in antagonismo con la psicoterapia.Anche se si allontana un poco dal discorso strettamente degli psicofarmaci, ritengo sia opportuno spendere qualche parola a questo proposito.Quando la depressione è già in atto, non credo assolutamente che la psicoterapia sia adatta ed abile ad operare ed ottenere una guarigione che, se mai si verifica, in corso di un trattamento, solo ed esclusivamente psicoterapeutico, è piuttosto da attribuirsi, a mio parere, ad una guarigione spontanea della depressione, fenomeno sempre possibile nella malattia depressiva, con o senza psicoterapia.La terapia specifica, ottimale e radicale della depressione, è per me unicamente quella farmacologica.

Alla psicoterapia spetta il compito, per nulla trascurabile e per nulla marginale, durante la depressione stessa, o a guarigione avvenuta, di illustrarmi, spiegarmi, permettermi di comprendere, imparare ad evitare, le cause, i processi psicologici errati che mi hanno portato a cadere nella depressione.

Tutto ciò ben inteso, per quanto riguarda la depressione reattiva, perché quell’endogena è assolutamente impermeabile ed insensibile a qualunque psicoterapia. Vedremo in un prossimo articolo a cosa si riferiscano i due aggettivi “reattiva” ed “endogena”

Detto questo, possiamo rivolgerci alla terza ed ultima categoria di psicofarmaci che abbiamo preso in considerazione: “Gli ansiolitici”, rappresentati da un foltissimo gruppo di sostanze, tutte affini tra loro e molto simili chimicamente, dette “Benzodiazepine”.

Essi rappresentano i farmaci “sintomatici” per eccellenza, secondo il nostro linguaggio medico. Ossia essi non sono farmaci che curano la malattia, ma che piuttosto agiscono sul sintomo, provocandone la scomparsa, o la remissione, per un periodo di tempo limitato, qualunque sia la causa, la malattia, che ha provocato tale sintomo.Prendiamo per esempio, per meglio comprendere il discorso, il sintomo dolore.

Esso può essere provocato dalle cause più disparate e più varie: posso provare mal di testa perché sono stato troppo tempo al sole, ma anche perché ho studiato troppo e sono particolarmente stanco, o perché ho fatto indigestione, oppure ho ricevuto un colpo sul capo, oppure ho a lungo indossato un cappello troppo stretto, ma anche perché soffro di emicrania, o di nevralgia del trigemino, oppure ho la febbre, in corso di influenza, oppure ho un ascesso ad un dente, o sono miope ed ho sforzato troppo la vista leggendo senza occhiali, o sono affetto da sinusite o, nella peggiore delle ipotesi, da un tumore cerebrale.

In tutti questi casi ho dolore di testa.In tutti questi casi l’assunzione di un antidolorifico, provocherà la remissione, o la scomparsa del dolore, per un tempo limitato, indipendentemente dalla causa che lo ha provocato.

Ovviamente l’antidolorifico, nulla può sulla causa che ha provocato il dolore e che devo comunque affrontare e curare, se voglio liberarmi definitivamente del dolore.Non credo occorra precisare che ho semplificato al massimo per rendere più chiaro il concetto.

Se paragoniamo l’ansia, al dolore fisico, il discorso è perfettamente sovrapponibile: qualunque sia la causa che mi provoca l’ansia, sia essa l’approssimarsi di un esame difficile, o di un difficile colloquio, o un responso medico che temo, o un intervento chirurgico che non posso evitare, ma anche l’approssimarsi del matrimonio, o di un qualsiasi altro evento, seppur piacevole, ma che esce dalla normalità, fosse pure il partire per le vacanze, gli ansiolitici mi darebbero un temporaneo sollievo, limitatamente alla loro durata di azione.

Ma gli ansiolitici agirebbero egualmente anche se la causa responsabile dell’ansia, fosse una patologia della tiroide, o cardiaca, o un fenomeno prettamente senile, o addirittura e per rimanere in ambito psichiatrico, l’ansia non fosse a sé stante, ma rappresentasse un sintomo e quindi la conseguenza di una sottostante depressione.

Viene da sé che gli ansiolitici, a meno che non si tratti di casi sporadici ed in cui la causa dell’ansia è ben identificata e destinata ad estinguersi entro breve, ad esempio l’esame, il colloquio importante, il matrimonio, la partenza per le vacanze, ma quando piuttosto l’ansia è legata ad altre cause, ad altre patologie, tiroide, cuore e soprattutto la depressione, oppure ci troviamo addirittura di fronte ad uno stato di ansia continuo di cui non siamo in grado di individuare la causa, in tutti questi casi dicevo, viene da sé che gli ansiolitici non devono assolutamente essere usati da soli e come terapia unica e solitaria, di un’ansia la cui origine e causa deve essere invece attentamente indagata, scoperta e curata nel modo più opportuno.

Se la causa dell’ansia è per esempio la depressione, la terapia radicale sarà quell’antidepressiva e gli ansiolitici saranno adoperati solo sporadicamente e fino a che gli antidepressivi, non avranno risolto la depressione e con questa, conseguentemente, anche l’ansia da essa provocata.

Nei casi quindi in cui l’ansia non è fine a se stessa, ma rappresenta invece la conseguenza di un’altra patologia, è quest’ultima patologia che deve essere curata e guarita.L’uso continuativo e soprattutto solamente degli ansiolitici, in questi casi è assolutamente errato e privo di ogni validità terapeutica. Insisto su questo punto perché purtroppo è un errore cui assisto molto di frequente.E questa considerazione mi porta inevitabilmente a prendere in esame l’insonnia ed i sonniferi, meglio detti ipnotici.Abbiamo visto che come ipnotici sono stati utilizzati, inizialmente i barbiturici, ora abbandonati per tale scopo, a causa dell’inevitabile insorgenza di una grave assuefazione e dipendenza.

Come ipnotici ora sono largamente prescritte, salvo casi sporadici e specifici molto particolari, le benzodiazepine, le stesse che abbiamo visto usate come ansiolitici, privilegiando tra esse, quelle con durata di azione più lunga, allo scopo di coprire le ore della notte al completo.Per l’insonnia vale ed è applicabile lo stesso discorso dell’ansia: ove l’insonnia è, infatti, un fenomeno isolato e circoscritto, legato spesso a cause ambientali o contingenti, il solito esame da sostenere, una preoccupazione, la partenza, il giorno seguente per le vacanze, in questi casi e limitatamente ad un brevissimo periodo, l’utilizzo solo ed esclusivamente di un ipnotico è ammissibile ed utile, ma ove l’insonnia si prolungasse nel tempo e divenisse un disturbo continuo, allora con certezza essa sarebbe da considerarsi come un sintomo, come un disturbo non fine a se stesso, ma piuttosto come la manifestazione spesso più evidente, ma a volte anche unica, di una malattia sottostante, che dovrebbe essere indagata e curata adeguatamente.

Molto spesso tale malattia è proprio la depressione.

Si comprende quindi come anche in questo caso, l’uso solo degli ipnotici, per indurre il sonno è da considerarsi come un gravissimo e pericolosissimo errore, purtroppo commesso di frequente, mentre è la malattia sottostante da curarsi adeguatamente, con l’ovvio risultato di vincere così anche l’insonnia.Concludo questo lungo discorso sugli psicofarmaci rispondendo idealmente alle domande che più spesso mi sento rivolgere dai pazienti:Gli psicofarmaci provocano dipendenza? Una volta iniziato l’uso di essi non potrò più farne a meno?Per quanto detto in precedenza è evidente che la risposta è “no” se si parla di antidepressivi e di ansiolitici.Riguardo invece agli antipsicotici, utilizzati nella schizofrenia, essi devono essere assunti continuamente, non perché provochino dipendenza, ma purtroppo perché la malattia per cui si utilizzano, non è guaribile e può solamente essere controllata, con un uso continuo dei suddetti farmaci.

Gli psicofarmaci sono nocivi per l’organismo?Anche in questo caso la risposta è fortunatamente “no”, non più degli altri farmaci, assunti spesso con molta leggerezza, anzi spesso addirittura di gran lunga meno.E’ assolutamente da evitarsi durante una terapia con psicofarmaci, l’assunzione d’alcool.

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